La felicità, antica aspirazione dell’uomo, è stata più volte studiata dalle scienze sociali e psicologiche. Non a caso numerose ricerche hanno cercato di tracciarne l’andamento lungo l’arco della vita: secondo alcuni studi internazionali, il suo picco si registra tra i venti e i trent’anni, quando l’individuo sperimenta indipendenza e autonomia. Poi, intorno ai quaranta e cinquanta anni, la curva tende a declinare, per risalire in età più avanzata. Eppure, questa rappresentazione rischia di non aderire più alla realtà contemporanea. Oggi, i giovani sembrano meno motivati nella conquista dell’autonomia: pesano l’incertezza economica, le difficoltà lavorative, la fragilità politica e istituzionale. La ricerca di indipendenza si affievolisce e con essa diminuiscono le emozioni positive che un tempo accompagnavano il desiderio di emancipazione. C’è però un dato che resta incontrovertibile: la felicità si nutre di relazioni. Non si tratta di un’opinione romantica, ma di un fatto scientifico. Lo studio di Harvard sullo sviluppo adulto, iniziato nel 1938 e tuttora in corso, lo dimostra chiaramente: le relazioni di qualità, più ancora della ricchezza o della fama, sono il principale predittore di felicità e longevità. Chi ha relazioni forti vive più a lungo, con meno malattie e maggiore soddisfazione della vita. Non solo: una meta-analisi pubblicata su American Psychologist (Holt-Lunstad, 2010) ha rivelato che avere solide connessioni sociali riduce del 50% il rischio di mortalità prematura. In altre parole, le buone relazioni non solo migliorano la qualità della vita, ma la allungano. E se l’OMS ha definito la solitudine una delle emergenze sanitarie del nostro tempo, è perché l’isolamento sociale produce effetti paragonabili, in termini di rischio, al fumo e all’obesità.
Ma perché le sane relazioni costruiscono felicità? Perché ci permettono di essere visti, ascoltati, riconosciuti. Nell’incontro “in presenza” gli occhi, i gesti, il tono della voce veicolano un surplus di significato impossibile da riprodurre sui monitor. La convivialità, intesa come arte dello stare insieme, stimola la produzione di ossitocina, l’“ormone della fiducia”, e riduce i livelli di cortisolo, l’ormone dello stress. Non a caso, numerosi studi antropologici mostrano che le comunità più coese e conviviali registrano livelli più alti di benessere collettivo. La società digitale, al contrario, moltiplica contatti virtuali spesso superficiali, che non sostituiscono il calore delle relazioni autentiche. Le interazioni mediate dagli schermi riducono la profondità del dialogo e rischiano di scivolare in una spirale di approvazioni veloci, immagini confezionate, messaggi subliminali. È così che il bisogno di appartenenza rischia di trasformarsi in alienazione.

I segnali del disagio sono evidenti: in Europa, il suicidio resta la seconda causa di morte tra gli adolescenti, come ha ricordato recentemente l’UNICEF. E sebbene i dati complessivi mostrino una diminuzione del fenomeno rispetto agli anni ’90, negli ultimi tempi sono aumentati i disturbi depressivi e ansiosi tra i giovani, insieme al ricorso a psicofarmaci e all’abuso di alcol. Si tratta di un grido silenzioso, che segnala una generazione spesso privata delle esperienze autentiche che alimentano la felicità. A questo si somma la rassegnazione. Sempre più diffusa è la sensazione di impotenza, di incapacità a produrre cambiamenti, in un mondo dominato dagli schermi e da istituzioni percepite come fragili. In questo contesto, molti giovani preferiscono rimanere nella protezione della famiglia, rimandando l’autonomia.
Eppure, la storia sociale insegna che ogni crisi, anche la più dura, genera voglia di riscatto. Dopo i conflitti, le popolazioni hanno sempre ritrovato la forza di ricostruire, di uscire dalle case, di fare comunità. La felicità, dunque, non può essere considerata un bene individuale e isolato: è piuttosto un progetto collettivo, che si apprende con il sorriso, con la sana ironia, con il dialogo e la cooperazione.
È su questo terreno che le comunità locali, la cultura, la politica dovrebbero investire: non tanto sull’illusione di una felicità confezionata dagli schermi, ma sulla capacità di creare spazi di relazione, convivialità e partecipazione. Perché la felicità non si misura in “like”, ma nei legami reali che danno senso all’esistenza. (francescogarofalo@unicz.it)