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Verità e responsabilità nell’era digitale: riflessioni su Web, comunicazione e impatto sociale di Francesco Garofalo

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La verità va sempre ricercata e affermata, non solo nei Tribunali dove per secoli si è usato giurare sulla Bibbia di “dire la verità”, e dove la cultura dominante impone sempre la ricerca della verità. Perfino il Padreterno in Gv 8,32 sostiene che “conoscere la verità e la verità vi farà liberi”; sempre in Gv 18,37, Gesù afferma: “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità”. Anche altre religioni riconoscono nell’essere umano una creatura in grado di comprendere il contenuto della verità rivelata e di accoglierla secondo il proprio volere. Da questo scaturisce il concetto basilare di responsabilità, fondata sulla libera e volontaria accettazione della legge.

Mentre nella sua accezione ebraica, “emet” (verità, stabilità, fedeltà), e in genere nel pensiero della Bibbia, fa riferimento non tanto a ciò che è da “conoscersi”, da “dirsi” o da pensare, ma a “ciò che è da farsi”, da “praticare” nel tessuto della storia umana, nella sua accezione greca di “aletheia” significa invece svelamento, chiarificazione, spostando quindi l’asse dell’attenzione sulla dimensione conoscitiva e astratta della verità intesa dai greci come chiarezza delle idee e contemplazione intellettuale, donde “theoria”, dal verbo “theorein”, vedere.

Fatta questa premessa, segue un dato certo: non c’è uomo al mondo che attraverso le sue attività non sia proteso a ricercare quella che genericamente viene definita “la verità”: la cerca e la ricostruisce il giudice nei processi e in base ad essa valuta le responsabilità. Cerca “la verità” lo scienziato che effettua ricerca, studia la fisica e la biologia, al fine di scoprire la vera realtà dei fenomeni e delle leggi che li governano; cerca la verità il sanitario quando tende ad accertare le patologie dei suoi pazienti al fine di definire una valida terapia ; cerca la verità lo storico che ricostruire i fatti di un periodo; cercano e/o propongono e/o impongono la verità le ideologie politiche, partitiche, culturali, filosofiche. Cerca la verità il giornalista, custode della fonte della notizia, delle prove che giustificano il racconto. Le stesse religioni, quando si pongono le domande “chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo”, “cosa c’è dopo la morte”, propongono vie per raggiungere la verità. Insomma, la ricerca della verità accompagna quotidianamente il cammino dell’uomo; non solo, lo rende difficile, lo complica creando anche divisioni, conflitti, dubbi.

Detto ciò esaminiamo dal punto di vista sociologico l’aspetto della comunicazione della verità attraverso l’utilizzo dei potenti mezzi di comunicazione di massa: web, vale a dire praticare la democrazia utilizzando il “Clic”, il “mi piace” il “commento”, le “faccine” per stabilire una verità da ciò che non lo è. La riflessione però che si intende effettuare e sul modo in cui queste verità vengono portate a conoscenza dell’opinione pubblica da soggetti che rivestono il ruolo di personaggi che possono, per il ruolo che ricoprono, influenzare le menti fragili e le sensibilità dell’altro, che deve essere sempre tenuta in debita considerazione. Nel caso specifico del suicidio della signora, sarà la Magistratura a chiarire eventualmente le presunte responsabilità e stabilire la verità dei fatti, Senza entrare nel merito della drammatica vicenda, la domanda che intendiamo porre e porci è la seguente: la verità, se acclarata, può essere sempre resa pubblica, utilizzando i social o altri strumenti che la tecnologia mette a disposizione? Ogni enunciazione, scritta o verbale, prima di essere veicolata attraverso i sofisticati mezzi di c., non andrebbe vagliata e connessa ai valori della propria coscienza ed etica? Questo non significa invocare censure o limiti esterni all’espressione del pensiero e delle opinioni personali. Significa che ciascun individuo debba onorare la propria etica, i valori che compongono la coscienza collettiva di un Paese dove, prima della verità, deve essere tenuta in debita considerazione la “persona” che è diversa dall’altra. Un politico, un giornalista, un personaggio noto, si è formato “culturalmente” uno scudo protettivo di fronte agli attacchi, che incontra nel web. Ma non tutti sono individui muniti di uno “scudo protettivo”; non tutti sono corazzati per affrontare una verità, reale o presunta, in pubblico. Altri sono semplici cittadini che non sopportano le gogne mediatiche e reagiscono in modi diversi, arrivando anche a estreme conseguenze. Questi avvenimenti devono spingerci a riflettere sui valori presenti nel web, ma soprattutto sull’utilizzo che se ne fa.

La riflessione sulla comunicazione della verità attraverso i mezzi di massa, in particolare il web, si estende anche alla pubblicazione dei nominativi di individui rispettabili coinvolti in indagini o sottoposti a denunce prima di una conclusione giudiziaria. In questo contesto, il principio dello “scudo protettivo” assume un ruolo cruciale. Per individui abituati a comportamenti illeciti, la divulgazione del proprio nominativo sui social potrebbe avere scarso impatto. Tuttavia, per cittadini che non hanno esperienza con il sistema giudiziario, gli effetti psicologici e sociali possono essere significativamente diversi. L’uso indiscriminato dei social media per diffondere informazioni su presunte attività illegali prima che la verità sia stabilita in sede giudiziaria solleva interrogativi etici. Il principio di presunzione di innocenza, fondamentale nell’ambito legale, dovrebbe essere rispettato anche nella sfera mediatica. Il concetto di “scudo protettivo” si manifesta in modo differente per chi ha una storia criminale consolidata e per chi è estraneo a tale contesto. La reputazione di una persona “perbene” può subire danni irreparabili se il suo nominativo viene divulgato prima che la sua colpevolezza sia provata.

In questo contesto, emerge la necessità di un approccio equilibrato nella gestione delle informazioni legate a inchieste e procedimenti giudiziari. La società dovrebbe riflettere sulla responsabilità etica nell’utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa e sui potenziali effetti devastanti sulle persone coinvolte.

Il rispetto per la dignità degli individui dovrebbe costituire un imperativo anche nella società digitale contemporanea. Agire in accordo con la coscienza ed etica potrebbe contribuire ad evitare drammi e sofferenze, come quelli documentati quotidianamente dalla cronaca, inclusa la tragica vicenda legata al suicidio della signora lodigiana.

Questo richiamo alla responsabilità individuale riflette una consapevolezza significativa sulla potenza delle parole e il loro impatto sulla vita delle persone. Nel contesto di una società in cui la comunicazione avviene principalmente attraverso i mezzi digitali, dove le parole possono diffondersi rapidamente, diventa essenziale adottare un approccio intelligente e rispettoso. L’autore, l’informatore, del racconto o del messaggio ritenuto veritiero o presunto tale, ecc., deve essere innanzitutto reso noto e non può conservare l’anonimato, muoversi nell’oscurità o nell’incognito. Deve essere riconoscibile e reso noto il suo vero nominativo. La previsione della risposta dell’altro di fronte a una verità sottolinea la necessità di una comunicazione empatica e attenta alle sensibilità altrui. Questo principio rafforza l’importanza di un dialogo consapevole e responsabile, soprattutto in un ambiente digitale dove la trasparenza dell’identità dell’autore contribuisce alla costruzione di un contesto informativo più affidabile e rispettoso.

In un mondo in cui le parole possono trasformarsi in armi devastanti, l’intelligenza di chi le scrive o pronuncia dovrebbe sempre considerare le conseguenze e cercare di promuovere un dialogo costruttivo. La consapevolezza del potere delle parole e la responsabilità nell’utilizzarle emergono come principi guida per una comunicazione consapevole e compassionevole, fondamentale per preservare la dignità e il benessere degli individui nella società digitale odierna. (Francesco Garofalo)